Monique De Rae matura la vocazione per la pittura sin dall’infanzia e più tardi addirittura accantona una laurea e un impiego nella chimica clinica per dedicarvisi a tempo pieno.
Traccia dell’intervento del sottoscritto chiamato a presentare la mostra The Blue-Eyed Lady al Museo Francesco Gonzaga di Mantova il 2 luglio 2020.
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Per una lunga parte della sua carriera artistica la sua produzione è abbastanza tradizionale: oli e acquerelli di nature morte, animali e vedute acquatiche. I quali peraltro mostrano l’assimilazione della tradizione fiamminga (come non pensare a Van Gogh nelle varie marine o nei mazzi di fiori?), ma anche dei post-impressionismi francesi (quali Cezanne, i nabis o i fauves) e del naif (i suoi animali a noi italiani possono facilmente richiamare Ligabue).
Tutto questo però, per quanto ben riuscito e solidamente inserito nella tradizione, è comunque un déja vu che non le basta e a un certo punto arriva una svolta netta.
Come lei stessa racconta, tutto parte dalla sua barboncina gigante di color albicocca di nome Lady, regolarmente agghindata con un nastro colorato sulla testa. Un cane che da un lato attrae la curiosità e la simpatia delle persone che incontra, dall’altro sembra osservare il mondo per capirlo, con quell’espressione frequente nei cani quando in realtà stanno in attesa di un cenno di coinvolgimento da parte dei loro proprietari. Anche Lady di tanto in tanto viene ritratta nella prima fase artistica.
Quando Lady muore, il suo sguardo d’apparente ricerca torna come un’eco. Contemporaneamente, ma indipendentemente dalla morte del cane, emerge forte l’attenzione alle dinamiche della società e scatta una molla: come in una folgorazione sulla via di Damasco, Monique abbandona definitivamente la sua pittura tradizionale per far posto a qualcosa di radicalmente nuovo per tecnica, temi e approccio.
La metamorfosi più immediatamente visibile è quella tecnica e figurativa. I molti soggetti diventano uno solo: Lady. Il cane viene stilizzato in una posa accucciata in ascolto e osservazione, i colori si fanno piatti e sgargianti, quasi primari: giallo il cane stesso (a ricordarne il color albicocca) e azzurri gli occhi (a indicare limpidezza e chiarezza).
Potrebbe sembrare ancora un accostamento alla tradizione (ad esempio ai fauves), ma è invece qualcosa di nuovo: la forma è semplificata, si fa quasi astratta in un processo che ricorda da vicino la grafica d’inizio Novecento o ancor più quella dei primi videogiochi. Non che l’una e gli altri vengano imitati, ma simile è il processo di raffinazione: tutto ciò che è superfluo sparisce e quanto rimane sono solo colori piatti e intensi, linee chiare e semplici, lettere di nitida lettura.
E l’intera trasformazione avviene da un giorno all’altro, senza passaggi evolutivi intermedi.
Il cambiamento, come anticipato, è anche di tema: l’attenzione passa dal paesaggio e dalla cartolina al sociale, dall’osservazione della natura a quella dell’uomo. E si veste di una dimensione di fiaba, che avvolge, più del racconto, l’approccio.
Lady diventa una sorta di transfert, come il pupazzo del ventriloquo che in tanti film e in tanta letteratura diviene la maschera dell’uomo che lo muove, il suo tramite con il mondo. La figura stilizzata di Lady si fa punto di partenza di ogni tela; sempre nella stessa posa, degli stessi colori e dimensione, è questa sagoma a creare lo spazio nel quale le si distribuiscono attorno gli elementi altrettanto stilizzati di ogni dipinto.
Allo stesso tempo al dipinto si affianca un testo, una sorta di apologo che riprende, più che illustrare, gli elementi del quadro. Una ripresa con tono lieve a integrare il quadro in un completamento della narrazione che a noi in Italia può ricordare il dialogo tra i racconti di Gianni Rodari e i disegni di Bruno Munari nell’indimenticabile collana bianca Einaudi.
Apparentemente questa attenzione, talora critica, della società può sembrare spocchiosa, un ergersi a un catone come purtroppo tanti se ne vedono ogni giorno. È però un’impressione errata; Monique infatti non giudica, ma è pienamente immersa nel mondo e nelle difficoltà di questa nostra epoca, è “una di noi”.
E lo si capisce bene vedendo quanto, a ben guardare, ogni sua opera (a questo punto da intendersi come insieme di quadro e apologo) sia intrisa di un ottimismo che prevale sempre sulla critica, quanto voglia trasmettere un costante, amichevole e ottimista invito ad alzarsi e a darsi una mossa, partendo dalle piccole cose quotidiane, perché, come dice lei stessa, il risultato concreto di oggi lo ha prodotto l’idealista di ieri.